13 settembre 2008

Guerrieri di Quona contro Siena

Il Libro di Montaperti

Si tratta dell'unico documento di fonte fiorentina relativo alla guerra del 1260 tra i guelfi di Firenze e i ghibellini di Siena; la battaglia decisiva fu combattuta a Montaperti il 4 settembre 1260 e portò alla vittoria dell'esercito senese che si avvalse dell'appoggio della cavalleria inviata da Manfredi di Svevia e degli esuli fiorentini capitanati da Farinata degli Uberti. Il documento cita la presenza di molti popoli, fra questi per la prima volta i popoli di San Giusto e San Martino a Quona, e si presenta come un registro articolato le cui parti provengono dai diversi uffici militari ed amministrativi del comune. La maggior parte delle scritture riguarda la prima spedizione organizzata nell'ambito della guerra contro Siena, che culminò nella battaglia di Santa Petronilla del maggio 1260, ma ce ne sono anche di successive che giungono fino alla vigilia della battaglia.
Dopo la sconfitta dei fiorentini le carte dell'archivio, insieme ad altri trofei guelfi, caddero nelle mani dei senesi vincitori, che provvidero a rilegarle formando il volume "Il Libro di Montaperti" che divenne bottino di guerra.
Alcuni dei "capitoli" che lo compongono: quaderni di stanziamenti; promissioni per l'approvvigionamento di Montalcino; libri del mercato; il vettovagliamento dell'esercito; sui servizi del materiale e delle bestie da soma; registrazione delle milizie della città, del contado e stipendiarie.

Il reclutamento delle milizie comunali
La registrazione dei militi avveniva per atto pubblico scritto per mano di un notaio: tutti i cittadini e i contadini, compresi fra i 15 e i 70 anni, dovevano iscriversi “in atti e scritture in relazione ai rettori e cappellani” (laici) .
Gli abitanti di ciascun sesto (rione) in cui era suddivisa Firenze erano distinti per pivieri e a loro volta per popoli corrispondenti alla Parrocchie.
Il sesto di Porta San Piero, di cui Quona faceva parte sotto il plebato di Remole (l'odierna Sieci), è rappresentato colla figura delle chiavi: il sestiere aveva a capo quattro ufficiali municipali, detti rettori o cappellani (sempre laici), eletti dal popolo e assistiti da subalterni ed era diviso in comunità (parrocchie) identificanti il "popolo". La leva dei pedites, i soldati a piedi dell'oste, o esercito comunale, stavano sotto il gonfalone o vexilla, avveniva in base ad elenchi compilati da commissari preposti. Un gonfalone poteva comprendere una o più parrocchie limitrofe.

Guerrieri di Quona contro Siena
La parte VIII del Libro contiene i nomi dei militi del contado del Sesto di Porta San Piero, comprendente l’odierno territorio di Pontassieve, che si presentarono all’esercito nei campi di Ricavo e Monsanese, verso Castellina in Chianti, dal 29 agosto al 1 settembre, dinanzi a Guido di Ruggero Lanfredi e Tegro di Marcuccio, ufficiali deputati dal comune alla registrazione della truppa, oppure dal notaio Ugonem Bencivenni.
Gli armati delle parrocchie di San Martino e San Giusto a Quona che si presentarono per combattere furono i seguenti:

Armati del “populo Sancti Martini ad Cuonam”
Benincasa Guitti, vexillifer dicti plebatus; Preti f. Montis; Bactallieri f. Benincasa Guitti; Marchisellus et Vinta fratres, filii Pacis; Albertus f. Preti; Truffetti et Buosus eius filius; Lippus f. Iudicis Petronis; Melliorellus f. Mellioris; Boninsegna f. Bentacordi dicti populi (11 militi)

Armati del “populo Sancti Iusti ad Cuonam”
Andreas f. Riccholi; Bongianinnus f. Doni; Menfolinus f. Iacobi Falchonis; Benevenutus f. Iacobi; Raccuccius f. dicti Benvenuti; Iuntinus f. dicti Benvenuti; Pierus f. Dietiaiuti; Cinus f. Iunte; Testa f. Biondi; Tancheruscius f. Mazzuoli; Binaccius e Vintuccia, fratres, filii Ubertini Manfolini; Rota f. Rinieri; Drea f. dicti Rote; Mannuccius f. Guillelmini (15 militi)

Si ritrovarono nella piazzetta di fronte alla Chiesa, da lì scesero verso la pieve di Remole dove si trovarono con il grosso delle truppe provenienti da oriente: ad attenderli i militi della vallata del Sieci (Lobaco, San Martino, Santa Brigida, Doccia ecc) nonché quelli di Remole in gran numero (33). Attesero gli unidici militi di San’Angelo a Sieve, l’odierna Pontassieve, quelli di Acone ecc e si incolonnarono verso Firenze con i loro vessilli, pennacchi, trombe e tamburi.
Strada facendo raccattarono quelli di Monteloro (28) e di San Salvatore in Valle (19) e proseguirono la marcia verso la città per mettersi sotto le
due chiavi vermiglie in campo bianco di Porta San Piero (oggi zona intorno a via degli Speziali). Traversato l’Arno si diressero verso i castrum convenuti, luoghi di registrazione (la burocrazia anche allora!) e di partenza verso la battaglia che li attendeva. A piedi o sui barrocci, con le loro armi più o meno efficaci, morsi da cimici e pidocchi in continuità, percorsero più di 60 km sotto il sole di agosto, per giungere a Ricavo e Monsanese. Calzavano per lo più zoccoli, pezze di stoffa avvolte intorno al piede, più raramente scarpe di pelle, ma anche solo dei robusti calli sulla pianta del piede che gli facevano da suola. Le vesciche si formavano ed esplodevano senza soluzione di continuità, le tendiniti erano all’ordine del giorno: tutti segni che preannunciavano l'asprezza della battaglia.

"E raunata la detta gente in Firenze, si partì l'oste all'uscita d'agosto, e menarono per pompa e grandigia il carroccio, e una campana che si chiamava Martinella (detta anche la campana dell’asino) in su uno carro con uno castello di legname a ruote, e andarvi quasi tutto il popolo colle insegne delle compagnie, e non rimase casa né famiglia di Firenze, che non v'andasse pedone a piè o a cavallo, il meno uno per casa, e di tali due, e più, secondo ch'erano potenti.” (Giovanni Villani, Cronica)
Probabilmente i guerrieri di Quona, una volta posti sotto le insegne del quartiere di Porta San Piero, passarono l'Arno e la cronaca della spedizione militare permette di formulare ipotesi sul percorso intrapreso dalle truppe alla volta di Siena, lungo strade e sentieri polverosi, sulla base delle soste effettuate dall’esercito in marcia. Una prima sosta a San Casciano, una seconda a San Donato in Poggio, poi presso il castello di Ricavo (registrazione dei guerrieri di Quona) e a Monsanese. Da Pievasciata, dove l’esercito fiorentino s’accampò in attesa della battaglia, è possibile ipotizzare un percorso di crinale da Fonterutoli verso Valgliagli, lungo la val d’Arbia. In tutto, da Quona a Montaperti, più di cento chilometri tagliando fra i boschi e i campi olivati, vitati e pioppati, nudi e sodi e viottole polverose, sotto il sole di agosto, con il peso delle armi e il tormento di cimici, pidocchi e altri parassiti.

Verso le nove di sera al calare della notte, con la battaglia ormai ampiamente vinta da Siena, i comandanti di quell'esercito diedero l'ordine di salvare la vita di chi si fosse arreso, impartendo però l’ordine di sopprimere tutti i fiorentini che fossero stati catturati. I guerrieri di Quona sopravvissuti, udito questo ordine, cancellarono dai vestiti le insegne delle loro compagnie: si travestirono da aretini, lucchesi, colligiani rubando gli abiti e le insegne ai morti che tanto non ne avevano più bisogno, magari anche i pochi averi che i corpi senza vita avevano con se, e si mescolarono ai loro alleati per aver salva la vita.
Non è dato sapere quanti poi tornarono alle loro casupole di San Giusto e San Martino.
Alcuni popoli vicini parteciparono alla guerra presidiando gli accessi al territorio di Firenze da possibili nemici legati a Siena e al partito ghibellino: si ricordano, fra gli altri, gli abitanti di Montefiesole e del “communis” di Monte di Croce che andarono a rafforzare le difese di Galliano, nel Mugello.

I rifornimenti per l’esercito
Ovviamente quando un esercito si muove per portare la guerra ad un altro c’è bisogno di un’organizzazione che garantisca i rifornimenti, non solo di armi, ma anche di generi alimentari in modo da garantire alle truppe la possibilità di battagliare per diverso tempo, svolgere assedi e tutte le azioni che sono necessarie in una guerra. Consideriamo che anche la movimentazione dei soldati e delle merci richiedeva giorni di cammino su strade disagevoli, con ampio uso di animali da soma, buoi e barrocci. Il libro di Montaperti, un vero e proprio registro, segnala pertanto anche gli obblighi degli stessi popoli a fornire il grano, le salmerie, le annone, ecc e a questo proposito nelle “Promissioni di grano” si ritrovano fra i fornitori:

Plebatus di Remolo tot 40 staria - uno staio circa 20kg.
Lunedì 9 agosto – Iacopus f. Guillelmi, rector populi Sancti Martini de Cuona, staria 8. Pro quo fideiussit Feus Quattrocoscie populi Sancte Cecilia.
Martedì - 10 agosto – Mannuccius f. Guilielmini, rector populi Sancti Iusti de Cuona, staria 6. Pro quo fideiussit Cavatorta f. Cinelli populi Sancte Maria Alberighi.
Plebatus de Montefiesole staria 35
Plebatus Sancti Martini Lobaco staria 69

Invece nei Libri del mercato (parte III) dal 6 agosto al 1 settembre sono registrati i nomi dei mercanti (mercatanti) del contado ai quali era stato imposto di portare le vettovaglie (salmerie) all’esercito e per l’approvvigionamento di Montalcino, le mallevadorie da essi prestate e la consegna fatta delle vettovaglie imposte.
Per quanto ci riguarda si ha:
Populi Sancti Martini de Cuona-Plebatus di Remulo
Corsus filius Boni,
Ugolinus filius Ughetti: lunedì 30 agosto presentavano una soma (quanto può portare un asino) di pane e una di annona.
Ammannatus filius Villani: martedì ultimo agosto presentava una soma di pane;
Simone filius Bonaguide
Oddo filius olim Borghesi populi Sancti Leonis fideiussit die mercurii predicta 11 agosto.
Sabato 28 agosto presentavit salmam j anone
Guarduccius filius Borritengni
Corsus filius Dietisalvi populi Sancti Apolinaris fideiussit pro eo die xij augusti.
Giovedì 26 agosto, apud (presso) Sanctum Donatum, presentavit salmam pani et anone.
Lunedì 30 agosto Pelegrinus filius Bencivenni portava una salma di pane.
In un esercito che si rispetti, per rafforzare il corpo e l’animo dei cavalieri e dei fanti, non potevano mancare le puttane - sotto forma di bordelli da campo - sempre molto frequentati indipendentemente dal censo. Insomma la guerra era una pena, ma anche un grande godimento poiché tutti gli obblighi religiosi - siamo nel medioevo - saltavano pur di garantire la vittoria alle parti in causa e la Chiesa riusciva comunque a costruire il suo castello metafisico e ideologico per salvare capra e cavoli delle parti contendenti.
Al seguito anche armaioli, calderai, mulattieri, bovari, servitori, usurai, trafficanti d’ogni sorta che avrebbero acquistato per i classici “pochi, maledetti e subito” il bottino dei saccheggi!

La battaglia
Infuriò dalla mattina alla sera tardi, si svolse sul colle di Montaperti nei pressi del fiume Arbia e fu cruentissima, tanto che Dante la rammentò nel canto X dell’Inferno.
«…lo strazio e 'l grande scempioche fece l'Arbia colorata in rosso, tal orazion fa far nel nostro tempio.»
Eserciti schierati
Fiorentino-Guelfo, più numeroso, composto da 30000 fanti e 3000 cavalieri, ebbe 10000 morti (2500 fiorentini) e 15000 prigionieri (1500 fiorentini) - comandato da Iacopino Rangoni da Modena.
Senese-Ghibellino, costituito da 20000 fra fanti e cavalieri (1800), ebbe 600 morti e 400 feriti, comandato da Provenzano Salvani che fu poi ucciso nella battaglia di Colle del 1269 (vedi Purgatorio XIII).
Il sacco del campo fiorentino permise ai senesi e ai loro alleati di catturare quasi diciottomila animali tra cavalli, buoi e da soma: un bel bottino non c'è che dire!

Le leggende sulla battaglia!
La prima ha per protagonista la vivandiera senese Usilia (venditrice ambulante, una treccola) che, da sola, catturò 36 fiorentini, salvandogli allo stesso tempo la vita: riuscì a preservare la sua umanità nonostante la guerra - brutta bestia che trasforma l’animo umano!
Non mancarono i “traditori” e fra questi il più famoso fu Bocca degli Abati che, a causa di complessi interessi e alleanze, parteggiava in verità con i ghibellini. Lasciamo parlare ancora Giovanni Villani (1280-1348) che nella Cronica scrive: “E come la schiera de' Tedeschi rovinosamente percosse la schiera de' cavalieri de' Fiorentini ov'era la 'nsegna della cavalleria del Comune, la quale portava messer Jacopo del Naca della casa de' Pazzi di Firenze, uomo di grande valore, il traditore di messer Bocca degli Abati, ch'era in sua schiera e presso di lui, colla spada fedì il detto messer Jacopo e tagliogli la mano co la quale tenea la detta insegna, e ivi fu morto di presente. E ciò fatto, la cavalleria e popolo veggendo abattuta la 'nsegna, e così traditi da·lloro, e da' Tedeschi sì forte assaliti, in poco d'ora si misono inn-isconfitta”.
Dante poi lo accusa apertamente in uno degli episodi più crudi dell'Inferno: attraversando l' Antenora, la seconda zona del nono cerchio dove sono puniti il traditori, il poeta sbatte con il piede su un una testa che sporge dal ghiaccio (egli stesso scrive che non sa spiegare se per sua volontà, per destino o per volontà divina), la quale impreca e fa un fugace accenno alla vendetta di Montaperti. Allora Dante ha un sospetto e chiede a Virgilio di aspettarlo un attimo; tornato dal dannato lo invita a dire il suo nome, ma quando egli si rifiuta con decisione - i due hanno un vero e proprio battibecco - Dante diventa violento e afferra il dannato per la collottola minacciandolo di strappargli i capelli ed a un ennesimo rifiuto "gliene tolse più d'una ciocca": Piangendo mi sgridò: « Perché mi peste? se tu non vieni ad accrescere la vendetta assegnatami a causa di Montaperti, perché mi moleste? »...”quando un altro gridò: che hai tu Bocca? Non ti basta sonar con le mascelle, se tu non latri? Qual diavolo ti tocca”..
A quel punto il nome di Bocca è rivelato a Dante, ma prima che il poeta se ne vada soddisfatto di aver risolto l'enigma del traditore di Montaperti, lo stesso Bocca si mette a urlare quanti più nomi possibili di suoi compagni in modo da trascinare anche essi nell'infamia di trovarsi nel punto più basso dell'Inferno.
Un’altra storia narra che i senesi fecero sfilare il proprio esercito per tre volte davanti ai comandanti guelfi-fiorentini, cambiando ogni volta i vestiti con i colori dei terzi di Siena provando a far credere che le proprie forze fossero tre volte più numerose di quello che erano in realtà: questo stratagemma l’ho conosciuto in maniera approfondita leggendo e rileggendo i fumetti di Tex Willer, una vera e propria astuzia ampiamente utilizzata dagli eserciti più deboli.
Le bandiere e gli stendardi dei fiorentini furono, infine, presi e lo stesso gonfalone fu attaccato alla coda di un asino e trascinato nella polvere: con la sconfitta termina anche il Registro, i guelfi erano in rotta sotto tutti i punti di vista e pensavano solo a salvare la pelle e a preparasi l'esilio.

Organizzazione dell’esercito comunale fiorentino intorno al 1260
E’ composto per lo più da non professionisti della guerra riuniti nei sei quartieri - sesti a Firenze – che si proiettano al di fuori delle mura abbracciando il contado.
L’esercito era diviso in schiere che a loro volta venivano suddivise in squadre comandate da un capitano. Il Carroccio e la Martinella (la campana cittadina montata su un carro) erano il punto di riferimento per tutta la truppa.
In testa c’erano i feditori, la cavalleria pesante che inizia il combattimento ponendosi come avanguardia, sostenendo il primo urto contro il nemico.
In seconda fila altri cavalieri, più leggeri. Armati di lancia, spada, una maglia metallica rinforzata da pezze di cuoio bollito a copertura del tronco, un elmo di ferro, schinieri in cuoio a protezione delle articolazioni. L'uno accanto all'altro, i cavalieri si precipitano in battaglie frontali dove il valore, l'esperienza e il tempismo nell'entrata in combattimento si dimostrano spesso più importanti del loro numero complessivo.
I cavalieri, a dire il vero, in battaglia non sempre sono coraggiosi come invece dicono le leggende che li riguardano: spesso sono i primi a darsela a gambe - quelle del cavallo! Il quadrupede - eccellente per l’attacco - lo è altrettanto per scappare velocemente, mollando spesso il povero fante sul campo a morire in solitudine.
La terza fila era occupata dai palvesari dotati di un ampio scudo alto circa 150 cm e largo 70-80, che si muovevano in battaglia con grande coordinazione per creare in campo aperto una linea difensiva simile ad una palizzata: dietro altri palvesi armati di una lunga lancia per contrastare la cavalleria avversa.
La quarta fila era occupata dai balestrieri. La balestra è per l'epoca un'arma micidiale, in grado di perforare con facilità le armature e le maglie metalliche dei cavalieri, nonchè le protezioni dei cavalli. I cavalieri la considerano "sleale" poiché permette di colpirli a distanza, infrangendo le regole “dell'onore cavalleresco” e quel senso di superiorità, sociale oltre che militare, che il cavaliere si è sempre visto riconoscere fin dall'inizio del Medioevo. E' l'arma cittadina per eccellenza, ideale per risolvere le sommosse e semplice da utilizzare anche senza troppo allenamento. Molto efficace sulla breve distanza, ha il suo limite nella bassa cadenza di tiro che permette circa un paio di tiri utili nel corso di una carica di cavalleria.
L'insieme palvese - arco - balestra - lancia rappresentava nel XIII secolo la più sofisticata ed efficace forma di difesa contro le cariche di cavalleria.
In quinta fila altra fanteria: tutti gli uomini validi da 15 a 70 anni. I fanti erano inquadrati in squadre comandate da un capitano nominato fra i cittadini dall’ambiente medio-alto del comune. Sono armati nei modi più disparati: archi, balestre, lance, spade, mazze, nonché tutta una serie di armi derivate da attrezzi agricoli e di uso comune. Un armamento composito poiché ogni fante doveva provvedere personalmente all'acquisto e alla manutenzione del proprio equipaggiamento. La protezione in battaglia è costituita da scudi personali.
Alla fine la sesta fila costituita da carriaggi e salmeria, a ridosso dell’esercito comunale per il rifornimento, ma anche per evitare le possibili fughe precipitose.
Dietro a tutti la riserva costituita da altri fanti e cavalieri.
Durante la battaglia gli ordini venivano impartiti attraverso svariati suoni (tamburi, trombe ecc) e nonché con bandiere da battaglia: i soldati si radunavano in maniera ordinata sotto la propria insegna, ognuno sapeva cosa fare.

Epilogo
Nei giorni successivi alla vittoria i ghibellini fiorentini fuoriusciti rientrarono in città il 27 settembre e si insediarono al governo. A tutti i cittadini fu fatta giurare fedeltà al re Manfredi. Le torri e le abitazioni dei cittadini di parte guelfa furono rase al suolo, così come era stato fatto nei confronti dei ghibellini nel 1258 (legge del taglione).
Alla fine dello stesso mese fu convocata a Empoli una dieta delle città e dei signori della Toscana di parte ghibellina per discutere come rafforzare il partito in Toscana e consolidare nella regione l'autorità del re. In questa occasione i rappresentanti di Siena e Pisa sostennero la distruzione di Firenze, alla quale si oppose il ghibellino fiorentino Farinata degli Uberti, salvandola da ulteriori distruzioni e dimostrando il suo amor di patria.
Dante cita Farinata nel X canto dell'Inferno tra gli “uomini degni del tempo passato”, ovvero i "fiorentini ch’a ben far puoser li ’ngegni": Manente, questo il suo nome di battesimo, contestava la supremazia religiosa della Chiesa e la sua ingerenza politica, reclamando una suddivisione tra potere spirituale e potere temporale. Grande Farinata, non puoi sapere di quanto bisogno ci sarebbe di te al giorno d’oggi! La confusione venne alimentata dalla propaganda della fazione guelfa di Firenze, pronta a sfruttare a proprio vantaggio l'accusa d'eresia di cui patirono tutti gli Uberti, i quali non furono mai perdonati dalla Firenze guelfa tornata al potere dopo pochi anni.

Dante, nello stesso canto, viene richiamato da Farinata "O toscano che vai vivo per la città infuocata e che parli con tono onesto, fermati per piacere in questo luogo, poiché il tuo accento fa capire che provieni da quella nobile patria verso la quale io fui forse troppo molesto" (parafrasi vv. 23-27), poi spronato a guardare anche da Virgilio "Volgiti! Che fai? Vedi là Farinata che s'è dritto:de la cintola in sù tutto 'l vedrai" e alla fine colloca Farinata tra gli eretici epicurei che l'anima col corpo morta fanno.