21 agosto 2006

Diario di un capriolo sentimentale. Prima parte (Video)

Non sapevo di chiamarmi Martino perché solitamente fra noi caprioli non ci si chiama per nome bensì ci si riconosce dalla tonalità di un verso che assomiglia molto al latrato di un cane. Una perfida volpe, o un cane che gli assomigliava molto, quando ero appena nato mi ha trascinato via dal mio nascondiglio, sbattendomi sui sassi e lasciandomi in mezzo di strada ferito alla testa - la mia vera mamma non mi ha più trovato. Per fortuna era una via di campagna, poco trafficata, dove sono rimasto disteso senza forze per non so quanto tempo; stavo perdendo conoscenza poiché le mosche carnarie, veramente fameliche, mi assalivano a più non posso sulle ferite, coprendomi di larve e infilandosi perfino dentro i miei lunghi orecchi, i miei radar! E’ arrivata però una scatola di latta con quattro strane gambe che marciava in modo buffo; ne è scesa un’umana che camminava su due gambe - che strano modo di tenersi in piedi – con dei peli lunghi e ricci sulla testa, mi ha sventagliato a più non posso per cacciare gli insetti e mi ha fatto salire sulla scatola di latta, accanto a lei. Il mio primo viaggio in automobile è durato veramente poco poiché la casa era molto vicina, ma a quel viaggio ne seguiranno molti altri che vi racconterò! L’umana con quegli strani peli mi ha chiamato Martino e anch’io le ho dato un nome: l’ho chiamata Ma, poiché un nome più lungo e complicato non saprei dirlo! Sono quindi un piccolo capriolo che Ma ha trovato con ancora il cordone ombelicale attaccato; avevo due giorni di vita, pesavo poco più di un chilo, gambe lunghissime e fragili - non mi reggevo in piedi ed ero molto debole. Ero più morto che vivo, e quando Ma si è avvicinata per togliermi dalla strada pensando che fossi morto, con le ultime forze rimaste ho avuto la forza di aprire gli occhi per chiedere aiuto. Una volta arrivato a quella che sarà la mia “tana” Ma mi ha fatto ingurgitare subito un po’ di latte con contorno di abbondanti coccole. Ho potuto quindi fare la conoscenza di altri due esseri viventi non umani che vivono nella stessa “tana” e mi subito hanno annusato da capo a piedi: Gugo e Silvestro. Sono due gatti veramente molto belli, simpatici e cordiali che però all’inizio hanno pensato e si sono detti – me lo hanno raccontato dopo: ”ecco un intruso che ci ridurrà le attenzioni dei due nostri umani”. Gugo è a pelo lungo di colore grigio ed ha un andamento maestoso, consapevole della sua bellezza e della sua forza, ma anche della sua bontà – fa sempre le fusa. Quando esce dalla porta si erge con tutta la sua mole e tiene alta come una pertica la sua grossa coda e sembra dire eccomi!, sono qua!, sono io!, ammiratemi! Basta avvicinarsi ad un metro perché lui inizi ad emettere uno strano suono soffuso – ron, ron – aspettando la solita carezza che immancabilmente arriva. Miagola anche tanto!
Silvestro, a cui ho rubato subito l’ abituale coperta dove solitamente va a riposare per ore dopo notti passate a cacciare topi, lucertole, uccelli, orbettini e bisce, è a pelo lungo, tutto nero sopra e bianco sotto, con una bella maschera sul viso; sembra il gatto mascherato, pare portare dei calzini con altezze diverse ed è dolce e pestifero nello stesso tempo,. E’ un cacciatore impenitente, si arrabbia per un non nulla, ma fa molto teatro, in realtà è molto dolce e protettivo, soprattutto quando andiamo a fare le passeggiate. Una volta l’ho sentito arrabbiatissimo poiché aveva visto in una scatola nera a colori un gatto simile a lui che veniva chiamato Silvestro, con la differenza che aveva il naso rosso, la punta della coda bianca e la lisca. Ma non è questo il motivo della sua arrabbiatura, bensì perché questo gatto della scatola nera si faceva sempre fregare da un uccelletto giallo, niente di che - veramente antipatico - mi sembra si chiamasse Titti. Gugo e Silvestro, quello mio, sono venuti ad annusarmi più volte, come per esplorare se potevo essere un amico o peggio un nemico – non mi hanno mai soffiato e non hanno mai tirato fuori i loro temibili artigli per i miei occhi. Diciamo che per lunghi giorni mi hanno osservato per capire di che pasta ero fatto; anch’io li ho guardati spesso cercando un contatto con loro e mi sono fatto qualche timida annusatina dentro il loro pelo perché io stesso devo potermi fidare di loro.
Nonostante il latte bevuto, che proprio non mi andava giù, non stavo bene pertanto Ma mi ha rimesso nuovamente nella scatola di latta, dentro la gabbia dei gatti, per portarmi da un medico per gli esseri viventi diversi dagli umani: ho saputo dopo che questo signore vestito di verde è un veterinario che io chiamo Dado: in questo caso il nome lo so dire poiché è piuttosto breve, mentre quello di Ma è pieno di "ci" e da queste parti con questa lettera hanno qualche problema di pronuncia, a volte se la mangiano proprio come non esistesse; altre volte è come se fosse "sci". Il veterinario mi ha trovato pieno di larve, come ho già detto, mi ha accarezzato molto, mi chiamava anche lui Martino, ma dopo un po’ di carezze e pulizie varie mi ha bucato la schiena ed io mi sentito mi sono agitato parecchio. D’altronde nel libero mondo dei caprioli e della foresta genere, tutto questo non esiste e vige la legge di natura: punture, flebo, vitamine neanche a parlarne. Ma lì ho saputo una cosa meravigliosa: anche Dado ha un cucciolo di capriolo, Martina, che ha promesso di farmi conoscere quando saremo un po’ più grandi: non vedo l’ora, e mi vengono strani pensieri e sogno ad occhi aperti il giorno dell’incontro con un mio simile! Di nuovo verso casa dopo avere fatto un’abbondante scorta di latte di capra, il mio preferito, ma nonostante tutte le cure continuo a mangiare con grande sforzo - il biberon mi frulla per la bocca e stento a deglutire il latte, mi ci vuole molto tempo e tutta la pazienza di Ma che mi tiene sulle gambe. Ho uno strano ronzio nelle orecchie, una cosa insopportabile, opprimente, scuoto la testa per liberarmene ma soprattutto non riesco a comunicare questo fastidio. Dopo qualche ora ho conosciuto Ba, l’altro umano che vive a casa mia. Ha i capelli corti e gli occhi azzurri, il suo nome è assolutamente impronunciabile per me, troppo gutturale, peggio del nome di Ma. Per i primi giorni ho dormito in casa - troppo piccolo e fragile per lasciarmi fuori - in una cesta piena di erba e paglia, molto comoda e fresca. Continuo a non stare bene a succhiare il latte con fatica, nonostante gli sforzi di Ma e Ba: il fastidio all’orecchio è aumentato a dismisura, quasi da impazzire, una vera e propria tortura! Ma si è accorta che mi è uscito un baco dall’orecchio - di nuovo dentro la scatola di latta e giù da l’umano vestito di verde che mi guarda da tutte le parti, infilandomi dentro le orecchie un visore con una luce in testa per esplorare ogni anfratto - fastidiosissimo: cavoli - dice Dado - ci sono dei vermi - le uova di mosca si sono dischiuse e c’è un gran tramestio come dentro il sacchetto dei pescatori. Carezze in abbondanza, parole dolci all’orecchio, Ma mi tiene per le gambe e Dado comincia frugarmi dentro l’orecchio con delle pinze lunghissime e inizia ad estrarmi quei bacarozzi uno ad uno: dopo un bel po’ di tempo, per me interminabile, finisce di strufugliarmi e il risultato finale sono una ventina di vermi che non sono più dentro di me grazie al Ba di Martina. Ritorno a casa dentro la scatola e comincio a mangiare, anzi a bere, attaccandomi al biberon e ingurgitando il latte di capra tutto di un fiato: inizio anche a pascolare nel giardino di casa addentando e ruminando germogli di rosa, del tenero trifoglio, delle foglioline di acacia buonissime e gustose, dell’insalata - meglio la romana - e qualche pezzetto di mela: Ba ha piantato in giardino diverse specie di insalate per variarmi l’alimentazione e io ne approfitto.
La mattina aspetto in giardino - ora dormo lì - insieme a Gugo e Silvestro l’apertura della finestra che annuncia il primo pasto del giorno: puntualmente Ba si affaccia, un breve saluto a tutti con la solita carezza e relativi complimenti – apertura della porta, entrata in casa. Tutti e tre siamo tremendamente affamati: i gatti miagolano, fanno le fusa, si strusciano alle gambe di Ba rischiando di farlo inciampare e infilano letteralmente la testa in frigorifero. Io non sono da meno, mordicchio i pantaloni a più non posso per farmi notare e non essere da meno. Gugo e Silvi mangiano per primi perché il loro cibo è subito pronto, mentre il mio latte va scaldato e messo nel bibe. Biberon pronto in mano a Ba e via in giardino a succhiare nel ciucciotto. Pochi attimi ed ho finito, mi sento meglio e soddisfatto. Vago in giardino alla ricerca di teneri germogli mentre Gugo e Silvestro vanno a dormire dopo una notte di baldoria. Io stesso non disdegno di intrufolami in casa appena posso e non visto per accucciarmi sotto il tavolo della cucina a ruminare. a pensare alla mia vita, a ciò che mi circonda e a filosofeggiare. Ma i problemi sono sempre in agguato poichè da lì a pochi giorni ho cominciato a sentirmi di nuovo male: la dissenteria, micidiale per i cuccioli di capriolo, si è impossessata di me a causa del poco latte materno che ho bevuto e quindi dei pochissimi anticorpi che mi sono stati trasmessi dalla mia mamma naturale. Le forze mi sono andate via, l’appetito è scemato nuovamente, ho iniziato a viaggiare tutti i giorni verso valle dal mio amico umano col camice verde, nella grigia scatola di latta camminante: Ba guida e Ma mi porta in braccio tutto avvolto negli asciugamani per ovvie ragioni - ripararsi dalle emissioni di un liquido verdastro!
Fine prima parte

04 agosto 2006

Il territorio e i suoi toponimi

Le categorie toponomastiche che interessano il territorio del Popolo di Quona.

L’origine dei toponimi è molto variegata: possono essere dei nomi presi da persone o famiglie spesso associati a prediali (poderi) o da mestieri; nomi presi da piante o da rilievi; nomi derivanti da corpi idrici o da condizioni morfologiche del terreno e dell’insediamento; termini dal significato essenzialmente fondiario come curtis, mansus, casa, podere; architetture – case, castelli, strade, ponti; dal nome di una divinità o con nomi religiosi di origine medievale (Pieve, Chiesa, Santi, ecc)
L’elenco sottostante non è affatto esaustivo, diversi dei toponimi non presenti in cartografia, definiti “scomparsi”, restano nella memoria popolare e nella tradizione degli abitanti del luogo, pertanto il lavoro successivo sarà quello di rendere più completo questo elenco. Diversi di questi nomi, pur non apparendo nelle cartograife più recenti, sono censiti nel repertorio dei beni culturali del Comune di Pontassieve.

Toponimi del 1784 confrontati con quelli odierni

San Giusto a Quona
1 - Quona - da Da Quona, Cuona, famiglia di origine longobarda; località conosciuta dai primi del ‘900 anche come Trentanove dal nome di uno scultore che vi risiedeva, probabilmente Gaetano Trentanove;
2 - Bossi (RPag) – Bossi, villa
3 - Cafaggio; termine di origine longobarda, dal germanico “gahaio”, “kahagio”, "cahago" ovvero "campo recintato, coltivato".terreno chiuso - Cafaggio di sopra e Cafaggio di sotto
4 - Casa Nuova
5 - Fosso delle Rogaie - da raggia, rovo, di derivazione longobarda razziam (graffiare)
6 - Fiocco – S oggi scomparso come toponimo possibile derivazione da flocus particella di lana, comunque legato alla tessitura, bioccolo di lana
7 - Fornace (RPag) da forno per la cottura dei mattoni e, forse, della malta - S
8 - Il Rocco - strumento di legno per la filatura della canapa, della lana ecc, o forma di torre
9 - Poggio Martini (RPag) - S
10 - Rio - Il Rio presente nel repertorio dei beni culturali, noto anche come mulinaccio del Rio
11 - Riuccio - S
12 - Salettera (RPag) presente nel repertorio dei beni culturali - possibile derivazione da salceto o saliceto, lat. salictum
13 - San Giusto (RPag) - Proprietà Monache San Clemente – ruderi della vecchia Chiesa. Il toponimo è legato anche alla Cappella (privata) a pochi metri dalla località "Fiocco" e al complesso colonico di "Quona" detto anche "Trentanove".
14 - Terra bianca - argilla bianchissima, caolino, utilizzato per la produzione di ceramiche e porcellane
15 - Torricella (RPag) - casa torrita

San Martino a Quona
16 - C. Bardellone - Lat. Bardelonem - larga sella, spec. di legno, con l’arcione anteriore molto alto, usata dai mandriani nella doma (da barda)
17 - Poggio Bardellone
18 - Bisastrico (RPag)
19 - Borro del Pelacane - probabilmente dal greco "pelacao" che indica lo scarnificare le pelli, prima operazione della concia, durante il medioevo si usava il tannino ricavato dalle ghiande di quercia, dalla corteccia di acacia
20 - Casa Nuova - Casa nova
21 - Casina - La Casina
22 - Casina dalle due porte (RPag), anche Bisindole (due ingressi) - S
23 - Castellare - Castello diruto, comunque sito castellare, piccola fortificazione; Podere Castellare
24 - Catese – Podere Catese
25 - Cerreto (RPag) - Bosco di cerri
26 - Cornacchiaia (RPag) - S per Repetti da cornoclario, altri dal lat. cornicula (cornacchia) recorniclam. Diversi toponimi in Toscana.
27 - Corte – Le Corti lat curtes, cohrtem, cohòrtem, luogo cinto
28 - Erchi, Villa Rossi (RPag) - Da nome di divinità del panteon greco-romano, Hercules, dove esse erano venerate in templa o in fana
29 - Faese - S non presente nel repertorio dei beni culturali
30 - Frugnole - Grande lanterna usata per la caccia o per la pesca notturna - Forma corrotta di fornuolo, essendo simile ad una bocca da forno. Frugnolare - andare a caccia di uccelli col frugnòlo. Strumento di ferro stagnato, entrovi una lucerna di terra, detta TESTO, o BOTTA: serve per far lume a chi va la notte, quando egli è buio, a trarre agli uccelli. S
31 - Guelfa - Podere Guelfa - possibile casa turritacon la merlatura in stile guelfo
32 - Guazzi - Luoghi pieni d’acqua, dove ci si può immergere; forma varia di guado – origine longobarda da wazzer- S presente nel repertorio dei beni culturali come P. Aguazzi
33 - Il Paretaio - da parete, a cui si equipari la rete, detta paratella. Quell’aiuola dove si distendono le reti per acchiappare gli uccelletti, che allettati dal canto degli uccelli prigionieri e dal saltare degli zimbelli (uccelletti di richiamo) si posano nel boschetto che sta in mezzo.
34 - Massa a Riccia - Origine medievale, longobarda; la terra massariccia era suddivisa in mansi,cioè poderi più piccoli con una casa, con un campo da coltivare e piccole vigne che venivano affidate ai coloni – Massariccia
35 - Mezzana (RPag) - di mezzo, dal lat. Medium
36 - Mezzanella - S
37 - Montevivaio o Monteviraio (RPag) - Ricettacolo chiuso, in cui si mantengono vivi gli animali o più comunemente pesci; luogo dove si trapiantano gli alberi tolti dal semenzaio - - S, inglobato da San martino a Quona - presente nel repertorio dei beni culturali come Monte Viraio - altre interpretazioni: passaggio di uccelli o verdeggiante.
38 - Navicello (RPag) Luogo di passaggio di un fiume dove ci si limitava al trasporto delle persone e delle merci con piccole barche - S oggi forse riconducibile al nome Nave a Rosano presente nel repertorio dei beni culturali
39 - Osteria del Gobbo (RPag) - Chiaramente prende il nome dalle caratteristiche fisiche di qualcuno che ha avuto a che fare con l’osteria - S oggi riconducibile ad un palazzo, in pessime condizioni di manutenzione, all’ingresso di Pontassieve che viene chiamato “il gobbo”
40 - Patrignoni - P. Pratignone presente nel repertorio dei beni culturali come Pratiglione
41 - Petraine, dal lat. petra, massa di pietre, luogo dove si cavano le pietre; confini di un popolo; o da praedium podere
42 - Pianottolo
(RPag)
43 - Poggincolle - P. Poggio al Colle
44 - Poggiali – I Poggiali
45 - Ponticello del Pelacane, prima pontaccio del Pelacane
46 - Ponte dei Veroni - S
47 - Ponte delle Sanguinaie - S
48 - Riminini
49 - Sanguinaie di Sotto e di Sopra (RPag) - presente nel repertorio dei beni culturali - probabilmente da sanguine o sanguinella o risanguine, pianta arborea. In passato, il legno bianco e resistente veniva trasformato in carbonella o forniva la materia prima per fabbricare ingranaggi per mulini e raggi per ruote. Dai frutti si estraeva olio per lampade e pigmenti per l’industria tintoria (colore porporino). Note anche virtù fitoterapiche.
50 - San Martino, Chiesa (RPag), San Martino era molto venerato fra i longobardi
51 - Sodi - Terreni non lavorati, contrario di dissodare – I Sodi
52 - Veroni (RPag) - deriva dalle lunghe terrazze sulle quali veniva essiccato il tabacco coltivato sulle sponde dell' Arno; loggia o sporto fuori le mura della casa poggiata su travi o pietra – I Veroni

Fonti:
Mappa del Paganelli 1774; popoli e strade della comunità di Pontassieve (1774); Storia e Cultura, cartografia Regione Toscana; Mappa catastale 1820; ricerche personali
Note:
RPag abbreviazione di Raffaello Paganelli - significa che il toponimo è presente sulla mappa del 1774;
S sta per scomparso, perlomeno dalla cartografia più recente, mentre diversi di questi nomi si ritrovano nel repertorio dei beni culturali del Comune di Pontassieve redatto dall’Ufficio di Piano in occasione del Piano Strutturale .

29 luglio 2006

La chiesa di S. Martino a Quona

La Chiesa di S. Martino sorge a circa un km, dell’antico sito del castello di Quona, e sia il popolo di S. Giusto che quello di S. Martino sono già ricordati nel libro di Montaperti del 1260 - si tratta di un elenco comprendente i popoli del contado che fornirono uomini alla Repubblica Fiorentina nell'occasione della storica battaglia contro la Repubblica di Siena - ove risultano dipendenti al piviere di Remole.
Le prime notizie certe relative alla chiesa risalgono al 1274, quando compare in un elenco di chiese paganti la decima pontificia.

Da un punto di vista architettonico le tappe degli interventi edilizi o di restauro sono scanditi da poche date:
- nel 1585 venne inserito nella facciata della chiesa un portale di ingresso, come si deduce da un’iscrizione latina posta sopra di esso;
- nel 1745 fu ordinato allo scultore Domenico Ciottoli di rifare l’altare maggiore e di scolpire e realizzare i due confessionali laterali tutt’oggi esistenti.
- del 1781 è una mappa (conservata presso la chiesa di S. Michele a Pontassieve) disegnata dall’autore del "plantario" della Comunità di Pontassieve,
Raffaello Paganelli, da cui desumiamo la planimetria degli edifici che compongono il complesso parrocchiale e gli annessi, nonché l'uso di ogni ambiente: in particolare si può notare come l’edificio fosse più piccolo dell’attuale e fosse preceduto da un piccolo cimitero.
Nelle mappe del catasto generale toscano (1820), la pianta della chiesa non appare mutata rispetto agli anni precedenti, il cimitero è ancora davanti alla Chiesa. Nei decenni successivi l’edificio venne sopraelevato e ampliato sul fronte occupando l'area cimiteriale, mentre rimase invariato in larghezza; il portale cinquecentesco fu smontato e rimontato sulla nuova facciata.
Il controsoffitto in cannicciato fu dipinto con temi classici dal pittore milanese Luigi Ademollo.
La parte tergale dell’aula viceversa rimase inalterata, con il campanile duecentesco che venne abbattuto nel 1855 e al suo posto fu costruito l’attuale campanile a torre, progettato da Giuseppe Gondi, e finanziato da alcune famiglie nobili (tra cui i Ricasoli Firidolfi, il cui stemma figura sulla facciata del muro posto a fianco alla chiesa).
Altri lavori di ristrutturazione furono compiuti nel 1902, come è attestato da un'incisione sul palco dell’organo bisognoso di restauro per ascoltare nuovamente le sue note: in quell’occasione Leto Chini eseguì molte decorazioni pittoriche per la volta e le pareti della Chiesa e per la canonica, e con tutta probabilità venne anche chiuso l’oculo della facciata per permettere l’inserimento dell’organo.
Infine il restauro del 2003 che ha recuperato la funzionalità della Chiesa e gli affreschi rendendola di nuovo agibile alle funzioni religiose che si tengono una volta al mese, solitamente il primo sabato del mese, e ai matrimoni.
Prima e dopo il
restauro vi si sono tenuti diversi concerti di musica jazz, sin dal 1996, nell’ambito dell’iniziativa “Pievi nella Campagna” promossa dal Comune con l’intento di valorizzare i beni culturali e la storia locale, obiettivi che sembrano essere in fase di abbandono da parte della nuova amministrazione eletta nel 2004.

28 luglio 2006

Il Castello di Quona

Il territorio dei “Popoli di San Martino e San Giusto a Quona”, così come era definito nelle belle mappe del Paganelli (1774) può essere racchiuso a sud dall’Arno, a ovest dal borro del Pelacane e dalla sommità di via dello Stracchino alla cui sommità è posta una roverella di circa 200 anni, a est dalla strada che da Castel Sant’Angelo sale verso San Martino e a nord dal tabernacolo di Montefiesole.
Intorno allo stesso anno risultano abitarvi 45 famiglie di non possidenti, sostanzialmente mezzadri o lavoratori senza terra, per una popolazione di 403 anime: 42 erano le case abitate da agricoltori, tre da altri ed una risultava disabitata. Si segnala poi
la presenza di un prete che dimorava, molto probabilmente, nella canonica della chiesa di San Martino a Quona.
Le famiglie importanti di allora erano i Gatteschi, i Gondi, gli Albizzi, i Rossi, i Senbalì Martelli, i Ricasoli, i Frescobaldi ecc: sostanzialmente coloro che possedevano la terra e le case coloniche.
Oggi il popolo di Quona è evidentemente molto cambiato; di agricoltori neanche l’ombra, semmai coltivazioni nel tempo libero e aziende agrituristiche che producono olio e vino, mentre le case coloniche, dopo l’abbandono degli anni successivi al boom economico degli anni ‘60, sono tornate a popolarsi con una funzione residenziale.
Le strade comunicative sono sempre le stesse del ‘700, solo leggere variazioni, e molte di queste vicinali continuano, per fortuna, ad essere non asfaltate. Le modificazioni hanno sostanzialmente interessato il fondovalle, verso l’Arno, con l’orribile intervento urbanistico-edilizio di Mezzana, l’ampliamento dell’area ferroviaria, lasciando quasi inalterato il sistema collinare la cui sommità è Poggio Bardellone (490 m.s.l.m.).

Il Castello di Quona
Sembra che i Quona fossero signori di origine longobarda e furono, probabilmente, vassalli dei ben più famosi conti Guidi.
Pochi sono i ruderi che rimangono del castello di Quona collocato a circa di 340 m. di altitudine.
Presso questi resti gli scavi occasionali di qualche volenteroso hanno ridato luce ai resti dell’abside di una chiesa romanica, certamente quella di San Giusto, che dava il nome ad uno dei popoli della lega di Monteloro, ma che già non figura più nelle Decime degli anni 1295-1304.
Uno dei più antichi cronisti fiorentini, Sanzanome, narra la rovina del castello di Quona, avvenuta all’incirca verso il 1143 nella guerra dei fiorentini contro Guido Guerra, la cui causa remota era la divisione dell’eredità carolingia, che vedeva contrapposti i Guidi e gli Alberti: nell’occasione fu anche distrutto il convento delle monache di Rosano.
Intanto si hanno notizie dalla storia mdella famiglia Filicaia che a meno di cento chilometri di distanza dal Mons Allonis, che nel 988 è chiamato ufficialmente Montacone (odierna Montaione), alla fine dell’XI secolo, una famiglia chiamata Tebaldi o della Vitella o d’Aquona (dal luogo dove vivevano, il castello di Quona), domina la città di Pontassieve, a est di Firenze. Questa famiglia prenderà poi il nome di “Filicaja” (felceto, cioè area coperta da felci) dal toponimo originario dell’area coperta dal castello, detta anche Costa Filicaia. I Tebaldi (o della Vitella) cambiarono nome in "Filicaja" coll’avvento a Firenze della Repubblica per apparire non nobili e quindi poter ricoprire cariche pubbliche.
La conquista e la distruzione del castello fu l’episodio iniziale della guerra che il Comune di Firenze mosse al conte Guido e che si concluse nel 1153-54 con la distruzione delle mura di Monte di Croce, sopra Molino del Piano.Altre notizie si traggono da Lapo da Castiglionchio, rampollo dei da Quona, che scrive nella "Epistola":
"...il primo luogo che i nostri progenitori possedettero (...) fu un castello nel paese di Valdisieve che si chiama Cuona, e ancora così si chiama il poggio e il sito del luogo presso alla città di Firenze a dieci miglia."
Nel 1223 il sito è denominato come castellare di Quona, termine usato per identificare insediamenti un tempo muniti di fortificazioni.
Dal “Dizionario geografico fisico storico della Toscana di Emanuele Repetti” (1833) si legge:
“Quona, Cona e Torre a Cona o a Poni nel Val d’Arno sopra Firenze.- Tre luoghi diversi portano il nome più o meno alterato di Quona, o Cuona, dei quali uno solo ha dato il titolo a due popoli attualmente riuniti (S: Martino e S. Giusto a Quona, o Cuona) nel piviere di Remole, Comunità giurisdizione e circa miglia toscane tre a maestro di Pontassieve, Diocesi e Compartimento di Firenze".
In questo luogo di Quona o Cuona fu un castello di magnati diverso dal Quona di Pitiana e dal Quona della Torre a Ponia, o Poni.- Questo di Remole era situato nel risalto di uno de’poggi che diramansi da Montefiesole fino al Pontassieve e che dividono le acque scorrenti dal lato di ponente direttamente in Arno da quelle che dalla parte orientale influiscono in Sieve.
Di cotesto castello di Quona diede ancora notizia Messere Lapo da Castiglionchio, quando in una sua epistola scriveva al figlio, "
che costà era stato un castello, che chiamassi Cuonna, e che ancora così si chiama il poggio presso la città di Firenze a dieci miglia, castello che fu fortissimo di sito, di mura e di rocca inanzi che venisse disfatto del tutto per il comune di Firenze”.
Notizie sulla distruzione del castello le troviamo in R. Francovich che scrive (1976): “Proprio in questa direttrice, infatti, si dispiegò una energica azione cittadina nel corso del XII sec., cui solo accenno in quanto ci troviamo già al di fuori del territorio compreso nel nostro campione. Si tratta della distruzione del castello di Quona (a 15 km dalla città) che controllava la via di transito verso la Romagna".
Nel 1973, una ricognizione nell’area del castello di Quona permise il recupero di frammenti ceramici di epoca medievale (ceramiche acrome e maioliche).