13 settembre 2008

Guerrieri di Quona contro Siena

Il Libro di Montaperti

Si tratta dell'unico documento di fonte fiorentina relativo alla guerra del 1260 tra i guelfi di Firenze e i ghibellini di Siena; la battaglia decisiva fu combattuta a Montaperti il 4 settembre 1260 e portò alla vittoria dell'esercito senese che si avvalse dell'appoggio della cavalleria inviata da Manfredi di Svevia e degli esuli fiorentini capitanati da Farinata degli Uberti. Il documento cita la presenza di molti popoli, fra questi per la prima volta i popoli di San Giusto e San Martino a Quona, e si presenta come un registro articolato le cui parti provengono dai diversi uffici militari ed amministrativi del comune. La maggior parte delle scritture riguarda la prima spedizione organizzata nell'ambito della guerra contro Siena, che culminò nella battaglia di Santa Petronilla del maggio 1260, ma ce ne sono anche di successive che giungono fino alla vigilia della battaglia.
Dopo la sconfitta dei fiorentini le carte dell'archivio, insieme ad altri trofei guelfi, caddero nelle mani dei senesi vincitori, che provvidero a rilegarle formando il volume "Il Libro di Montaperti" che divenne bottino di guerra.
Alcuni dei "capitoli" che lo compongono: quaderni di stanziamenti; promissioni per l'approvvigionamento di Montalcino; libri del mercato; il vettovagliamento dell'esercito; sui servizi del materiale e delle bestie da soma; registrazione delle milizie della città, del contado e stipendiarie.

Il reclutamento delle milizie comunali
La registrazione dei militi avveniva per atto pubblico scritto per mano di un notaio: tutti i cittadini e i contadini, compresi fra i 15 e i 70 anni, dovevano iscriversi “in atti e scritture in relazione ai rettori e cappellani” (laici) .
Gli abitanti di ciascun sesto (rione) in cui era suddivisa Firenze erano distinti per pivieri e a loro volta per popoli corrispondenti alla Parrocchie.
Il sesto di Porta San Piero, di cui Quona faceva parte sotto il plebato di Remole (l'odierna Sieci), è rappresentato colla figura delle chiavi: il sestiere aveva a capo quattro ufficiali municipali, detti rettori o cappellani (sempre laici), eletti dal popolo e assistiti da subalterni ed era diviso in comunità (parrocchie) identificanti il "popolo". La leva dei pedites, i soldati a piedi dell'oste, o esercito comunale, stavano sotto il gonfalone o vexilla, avveniva in base ad elenchi compilati da commissari preposti. Un gonfalone poteva comprendere una o più parrocchie limitrofe.

Guerrieri di Quona contro Siena
La parte VIII del Libro contiene i nomi dei militi del contado del Sesto di Porta San Piero, comprendente l’odierno territorio di Pontassieve, che si presentarono all’esercito nei campi di Ricavo e Monsanese, verso Castellina in Chianti, dal 29 agosto al 1 settembre, dinanzi a Guido di Ruggero Lanfredi e Tegro di Marcuccio, ufficiali deputati dal comune alla registrazione della truppa, oppure dal notaio Ugonem Bencivenni.
Gli armati delle parrocchie di San Martino e San Giusto a Quona che si presentarono per combattere furono i seguenti:

Armati del “populo Sancti Martini ad Cuonam”
Benincasa Guitti, vexillifer dicti plebatus; Preti f. Montis; Bactallieri f. Benincasa Guitti; Marchisellus et Vinta fratres, filii Pacis; Albertus f. Preti; Truffetti et Buosus eius filius; Lippus f. Iudicis Petronis; Melliorellus f. Mellioris; Boninsegna f. Bentacordi dicti populi (11 militi)

Armati del “populo Sancti Iusti ad Cuonam”
Andreas f. Riccholi; Bongianinnus f. Doni; Menfolinus f. Iacobi Falchonis; Benevenutus f. Iacobi; Raccuccius f. dicti Benvenuti; Iuntinus f. dicti Benvenuti; Pierus f. Dietiaiuti; Cinus f. Iunte; Testa f. Biondi; Tancheruscius f. Mazzuoli; Binaccius e Vintuccia, fratres, filii Ubertini Manfolini; Rota f. Rinieri; Drea f. dicti Rote; Mannuccius f. Guillelmini (15 militi)

Si ritrovarono nella piazzetta di fronte alla Chiesa, da lì scesero verso la pieve di Remole dove si trovarono con il grosso delle truppe provenienti da oriente: ad attenderli i militi della vallata del Sieci (Lobaco, San Martino, Santa Brigida, Doccia ecc) nonché quelli di Remole in gran numero (33). Attesero gli unidici militi di San’Angelo a Sieve, l’odierna Pontassieve, quelli di Acone ecc e si incolonnarono verso Firenze con i loro vessilli, pennacchi, trombe e tamburi.
Strada facendo raccattarono quelli di Monteloro (28) e di San Salvatore in Valle (19) e proseguirono la marcia verso la città per mettersi sotto le
due chiavi vermiglie in campo bianco di Porta San Piero (oggi zona intorno a via degli Speziali). Traversato l’Arno si diressero verso i castrum convenuti, luoghi di registrazione (la burocrazia anche allora!) e di partenza verso la battaglia che li attendeva. A piedi o sui barrocci, con le loro armi più o meno efficaci, morsi da cimici e pidocchi in continuità, percorsero più di 60 km sotto il sole di agosto, per giungere a Ricavo e Monsanese. Calzavano per lo più zoccoli, pezze di stoffa avvolte intorno al piede, più raramente scarpe di pelle, ma anche solo dei robusti calli sulla pianta del piede che gli facevano da suola. Le vesciche si formavano ed esplodevano senza soluzione di continuità, le tendiniti erano all’ordine del giorno: tutti segni che preannunciavano l'asprezza della battaglia.

"E raunata la detta gente in Firenze, si partì l'oste all'uscita d'agosto, e menarono per pompa e grandigia il carroccio, e una campana che si chiamava Martinella (detta anche la campana dell’asino) in su uno carro con uno castello di legname a ruote, e andarvi quasi tutto il popolo colle insegne delle compagnie, e non rimase casa né famiglia di Firenze, che non v'andasse pedone a piè o a cavallo, il meno uno per casa, e di tali due, e più, secondo ch'erano potenti.” (Giovanni Villani, Cronica)
Probabilmente i guerrieri di Quona, una volta posti sotto le insegne del quartiere di Porta San Piero, passarono l'Arno e la cronaca della spedizione militare permette di formulare ipotesi sul percorso intrapreso dalle truppe alla volta di Siena, lungo strade e sentieri polverosi, sulla base delle soste effettuate dall’esercito in marcia. Una prima sosta a San Casciano, una seconda a San Donato in Poggio, poi presso il castello di Ricavo (registrazione dei guerrieri di Quona) e a Monsanese. Da Pievasciata, dove l’esercito fiorentino s’accampò in attesa della battaglia, è possibile ipotizzare un percorso di crinale da Fonterutoli verso Valgliagli, lungo la val d’Arbia. In tutto, da Quona a Montaperti, più di cento chilometri tagliando fra i boschi e i campi olivati, vitati e pioppati, nudi e sodi e viottole polverose, sotto il sole di agosto, con il peso delle armi e il tormento di cimici, pidocchi e altri parassiti.

Verso le nove di sera al calare della notte, con la battaglia ormai ampiamente vinta da Siena, i comandanti di quell'esercito diedero l'ordine di salvare la vita di chi si fosse arreso, impartendo però l’ordine di sopprimere tutti i fiorentini che fossero stati catturati. I guerrieri di Quona sopravvissuti, udito questo ordine, cancellarono dai vestiti le insegne delle loro compagnie: si travestirono da aretini, lucchesi, colligiani rubando gli abiti e le insegne ai morti che tanto non ne avevano più bisogno, magari anche i pochi averi che i corpi senza vita avevano con se, e si mescolarono ai loro alleati per aver salva la vita.
Non è dato sapere quanti poi tornarono alle loro casupole di San Giusto e San Martino.
Alcuni popoli vicini parteciparono alla guerra presidiando gli accessi al territorio di Firenze da possibili nemici legati a Siena e al partito ghibellino: si ricordano, fra gli altri, gli abitanti di Montefiesole e del “communis” di Monte di Croce che andarono a rafforzare le difese di Galliano, nel Mugello.

I rifornimenti per l’esercito
Ovviamente quando un esercito si muove per portare la guerra ad un altro c’è bisogno di un’organizzazione che garantisca i rifornimenti, non solo di armi, ma anche di generi alimentari in modo da garantire alle truppe la possibilità di battagliare per diverso tempo, svolgere assedi e tutte le azioni che sono necessarie in una guerra. Consideriamo che anche la movimentazione dei soldati e delle merci richiedeva giorni di cammino su strade disagevoli, con ampio uso di animali da soma, buoi e barrocci. Il libro di Montaperti, un vero e proprio registro, segnala pertanto anche gli obblighi degli stessi popoli a fornire il grano, le salmerie, le annone, ecc e a questo proposito nelle “Promissioni di grano” si ritrovano fra i fornitori:

Plebatus di Remolo tot 40 staria - uno staio circa 20kg.
Lunedì 9 agosto – Iacopus f. Guillelmi, rector populi Sancti Martini de Cuona, staria 8. Pro quo fideiussit Feus Quattrocoscie populi Sancte Cecilia.
Martedì - 10 agosto – Mannuccius f. Guilielmini, rector populi Sancti Iusti de Cuona, staria 6. Pro quo fideiussit Cavatorta f. Cinelli populi Sancte Maria Alberighi.
Plebatus de Montefiesole staria 35
Plebatus Sancti Martini Lobaco staria 69

Invece nei Libri del mercato (parte III) dal 6 agosto al 1 settembre sono registrati i nomi dei mercanti (mercatanti) del contado ai quali era stato imposto di portare le vettovaglie (salmerie) all’esercito e per l’approvvigionamento di Montalcino, le mallevadorie da essi prestate e la consegna fatta delle vettovaglie imposte.
Per quanto ci riguarda si ha:
Populi Sancti Martini de Cuona-Plebatus di Remulo
Corsus filius Boni,
Ugolinus filius Ughetti: lunedì 30 agosto presentavano una soma (quanto può portare un asino) di pane e una di annona.
Ammannatus filius Villani: martedì ultimo agosto presentava una soma di pane;
Simone filius Bonaguide
Oddo filius olim Borghesi populi Sancti Leonis fideiussit die mercurii predicta 11 agosto.
Sabato 28 agosto presentavit salmam j anone
Guarduccius filius Borritengni
Corsus filius Dietisalvi populi Sancti Apolinaris fideiussit pro eo die xij augusti.
Giovedì 26 agosto, apud (presso) Sanctum Donatum, presentavit salmam pani et anone.
Lunedì 30 agosto Pelegrinus filius Bencivenni portava una salma di pane.
In un esercito che si rispetti, per rafforzare il corpo e l’animo dei cavalieri e dei fanti, non potevano mancare le puttane - sotto forma di bordelli da campo - sempre molto frequentati indipendentemente dal censo. Insomma la guerra era una pena, ma anche un grande godimento poiché tutti gli obblighi religiosi - siamo nel medioevo - saltavano pur di garantire la vittoria alle parti in causa e la Chiesa riusciva comunque a costruire il suo castello metafisico e ideologico per salvare capra e cavoli delle parti contendenti.
Al seguito anche armaioli, calderai, mulattieri, bovari, servitori, usurai, trafficanti d’ogni sorta che avrebbero acquistato per i classici “pochi, maledetti e subito” il bottino dei saccheggi!

La battaglia
Infuriò dalla mattina alla sera tardi, si svolse sul colle di Montaperti nei pressi del fiume Arbia e fu cruentissima, tanto che Dante la rammentò nel canto X dell’Inferno.
«…lo strazio e 'l grande scempioche fece l'Arbia colorata in rosso, tal orazion fa far nel nostro tempio.»
Eserciti schierati
Fiorentino-Guelfo, più numeroso, composto da 30000 fanti e 3000 cavalieri, ebbe 10000 morti (2500 fiorentini) e 15000 prigionieri (1500 fiorentini) - comandato da Iacopino Rangoni da Modena.
Senese-Ghibellino, costituito da 20000 fra fanti e cavalieri (1800), ebbe 600 morti e 400 feriti, comandato da Provenzano Salvani che fu poi ucciso nella battaglia di Colle del 1269 (vedi Purgatorio XIII).
Il sacco del campo fiorentino permise ai senesi e ai loro alleati di catturare quasi diciottomila animali tra cavalli, buoi e da soma: un bel bottino non c'è che dire!

Le leggende sulla battaglia!
La prima ha per protagonista la vivandiera senese Usilia (venditrice ambulante, una treccola) che, da sola, catturò 36 fiorentini, salvandogli allo stesso tempo la vita: riuscì a preservare la sua umanità nonostante la guerra - brutta bestia che trasforma l’animo umano!
Non mancarono i “traditori” e fra questi il più famoso fu Bocca degli Abati che, a causa di complessi interessi e alleanze, parteggiava in verità con i ghibellini. Lasciamo parlare ancora Giovanni Villani (1280-1348) che nella Cronica scrive: “E come la schiera de' Tedeschi rovinosamente percosse la schiera de' cavalieri de' Fiorentini ov'era la 'nsegna della cavalleria del Comune, la quale portava messer Jacopo del Naca della casa de' Pazzi di Firenze, uomo di grande valore, il traditore di messer Bocca degli Abati, ch'era in sua schiera e presso di lui, colla spada fedì il detto messer Jacopo e tagliogli la mano co la quale tenea la detta insegna, e ivi fu morto di presente. E ciò fatto, la cavalleria e popolo veggendo abattuta la 'nsegna, e così traditi da·lloro, e da' Tedeschi sì forte assaliti, in poco d'ora si misono inn-isconfitta”.
Dante poi lo accusa apertamente in uno degli episodi più crudi dell'Inferno: attraversando l' Antenora, la seconda zona del nono cerchio dove sono puniti il traditori, il poeta sbatte con il piede su un una testa che sporge dal ghiaccio (egli stesso scrive che non sa spiegare se per sua volontà, per destino o per volontà divina), la quale impreca e fa un fugace accenno alla vendetta di Montaperti. Allora Dante ha un sospetto e chiede a Virgilio di aspettarlo un attimo; tornato dal dannato lo invita a dire il suo nome, ma quando egli si rifiuta con decisione - i due hanno un vero e proprio battibecco - Dante diventa violento e afferra il dannato per la collottola minacciandolo di strappargli i capelli ed a un ennesimo rifiuto "gliene tolse più d'una ciocca": Piangendo mi sgridò: « Perché mi peste? se tu non vieni ad accrescere la vendetta assegnatami a causa di Montaperti, perché mi moleste? »...”quando un altro gridò: che hai tu Bocca? Non ti basta sonar con le mascelle, se tu non latri? Qual diavolo ti tocca”..
A quel punto il nome di Bocca è rivelato a Dante, ma prima che il poeta se ne vada soddisfatto di aver risolto l'enigma del traditore di Montaperti, lo stesso Bocca si mette a urlare quanti più nomi possibili di suoi compagni in modo da trascinare anche essi nell'infamia di trovarsi nel punto più basso dell'Inferno.
Un’altra storia narra che i senesi fecero sfilare il proprio esercito per tre volte davanti ai comandanti guelfi-fiorentini, cambiando ogni volta i vestiti con i colori dei terzi di Siena provando a far credere che le proprie forze fossero tre volte più numerose di quello che erano in realtà: questo stratagemma l’ho conosciuto in maniera approfondita leggendo e rileggendo i fumetti di Tex Willer, una vera e propria astuzia ampiamente utilizzata dagli eserciti più deboli.
Le bandiere e gli stendardi dei fiorentini furono, infine, presi e lo stesso gonfalone fu attaccato alla coda di un asino e trascinato nella polvere: con la sconfitta termina anche il Registro, i guelfi erano in rotta sotto tutti i punti di vista e pensavano solo a salvare la pelle e a preparasi l'esilio.

Organizzazione dell’esercito comunale fiorentino intorno al 1260
E’ composto per lo più da non professionisti della guerra riuniti nei sei quartieri - sesti a Firenze – che si proiettano al di fuori delle mura abbracciando il contado.
L’esercito era diviso in schiere che a loro volta venivano suddivise in squadre comandate da un capitano. Il Carroccio e la Martinella (la campana cittadina montata su un carro) erano il punto di riferimento per tutta la truppa.
In testa c’erano i feditori, la cavalleria pesante che inizia il combattimento ponendosi come avanguardia, sostenendo il primo urto contro il nemico.
In seconda fila altri cavalieri, più leggeri. Armati di lancia, spada, una maglia metallica rinforzata da pezze di cuoio bollito a copertura del tronco, un elmo di ferro, schinieri in cuoio a protezione delle articolazioni. L'uno accanto all'altro, i cavalieri si precipitano in battaglie frontali dove il valore, l'esperienza e il tempismo nell'entrata in combattimento si dimostrano spesso più importanti del loro numero complessivo.
I cavalieri, a dire il vero, in battaglia non sempre sono coraggiosi come invece dicono le leggende che li riguardano: spesso sono i primi a darsela a gambe - quelle del cavallo! Il quadrupede - eccellente per l’attacco - lo è altrettanto per scappare velocemente, mollando spesso il povero fante sul campo a morire in solitudine.
La terza fila era occupata dai palvesari dotati di un ampio scudo alto circa 150 cm e largo 70-80, che si muovevano in battaglia con grande coordinazione per creare in campo aperto una linea difensiva simile ad una palizzata: dietro altri palvesi armati di una lunga lancia per contrastare la cavalleria avversa.
La quarta fila era occupata dai balestrieri. La balestra è per l'epoca un'arma micidiale, in grado di perforare con facilità le armature e le maglie metalliche dei cavalieri, nonchè le protezioni dei cavalli. I cavalieri la considerano "sleale" poiché permette di colpirli a distanza, infrangendo le regole “dell'onore cavalleresco” e quel senso di superiorità, sociale oltre che militare, che il cavaliere si è sempre visto riconoscere fin dall'inizio del Medioevo. E' l'arma cittadina per eccellenza, ideale per risolvere le sommosse e semplice da utilizzare anche senza troppo allenamento. Molto efficace sulla breve distanza, ha il suo limite nella bassa cadenza di tiro che permette circa un paio di tiri utili nel corso di una carica di cavalleria.
L'insieme palvese - arco - balestra - lancia rappresentava nel XIII secolo la più sofisticata ed efficace forma di difesa contro le cariche di cavalleria.
In quinta fila altra fanteria: tutti gli uomini validi da 15 a 70 anni. I fanti erano inquadrati in squadre comandate da un capitano nominato fra i cittadini dall’ambiente medio-alto del comune. Sono armati nei modi più disparati: archi, balestre, lance, spade, mazze, nonché tutta una serie di armi derivate da attrezzi agricoli e di uso comune. Un armamento composito poiché ogni fante doveva provvedere personalmente all'acquisto e alla manutenzione del proprio equipaggiamento. La protezione in battaglia è costituita da scudi personali.
Alla fine la sesta fila costituita da carriaggi e salmeria, a ridosso dell’esercito comunale per il rifornimento, ma anche per evitare le possibili fughe precipitose.
Dietro a tutti la riserva costituita da altri fanti e cavalieri.
Durante la battaglia gli ordini venivano impartiti attraverso svariati suoni (tamburi, trombe ecc) e nonché con bandiere da battaglia: i soldati si radunavano in maniera ordinata sotto la propria insegna, ognuno sapeva cosa fare.

Epilogo
Nei giorni successivi alla vittoria i ghibellini fiorentini fuoriusciti rientrarono in città il 27 settembre e si insediarono al governo. A tutti i cittadini fu fatta giurare fedeltà al re Manfredi. Le torri e le abitazioni dei cittadini di parte guelfa furono rase al suolo, così come era stato fatto nei confronti dei ghibellini nel 1258 (legge del taglione).
Alla fine dello stesso mese fu convocata a Empoli una dieta delle città e dei signori della Toscana di parte ghibellina per discutere come rafforzare il partito in Toscana e consolidare nella regione l'autorità del re. In questa occasione i rappresentanti di Siena e Pisa sostennero la distruzione di Firenze, alla quale si oppose il ghibellino fiorentino Farinata degli Uberti, salvandola da ulteriori distruzioni e dimostrando il suo amor di patria.
Dante cita Farinata nel X canto dell'Inferno tra gli “uomini degni del tempo passato”, ovvero i "fiorentini ch’a ben far puoser li ’ngegni": Manente, questo il suo nome di battesimo, contestava la supremazia religiosa della Chiesa e la sua ingerenza politica, reclamando una suddivisione tra potere spirituale e potere temporale. Grande Farinata, non puoi sapere di quanto bisogno ci sarebbe di te al giorno d’oggi! La confusione venne alimentata dalla propaganda della fazione guelfa di Firenze, pronta a sfruttare a proprio vantaggio l'accusa d'eresia di cui patirono tutti gli Uberti, i quali non furono mai perdonati dalla Firenze guelfa tornata al potere dopo pochi anni.

Dante, nello stesso canto, viene richiamato da Farinata "O toscano che vai vivo per la città infuocata e che parli con tono onesto, fermati per piacere in questo luogo, poiché il tuo accento fa capire che provieni da quella nobile patria verso la quale io fui forse troppo molesto" (parafrasi vv. 23-27), poi spronato a guardare anche da Virgilio "Volgiti! Che fai? Vedi là Farinata che s'è dritto:de la cintola in sù tutto 'l vedrai" e alla fine colloca Farinata tra gli eretici epicurei che l'anima col corpo morta fanno.

18 dicembre 2007

La mosca (clicca il video di popolodiquona Radio-TV)

No, non è un film, anche se il titolo ricorda un’opera cinematografica che ha fatto epoca. Vi ricorderete del giovane scienziato che tenta esperimenti di trasporto della materia. Usa sé stesso per i primi test, ma l'intervento accidentale di una mosca nella “cabina smaterializzante” lo rende vittima della sua invenzione: un bel film con una commovente storia d’amore!
La nostra mosca è invece quel piccolo “insetto” che ha imperversato nei mesi estivi fra gli oliveti di Quona - e non solo - un misero animaletto di otto millimetri con due ali che ha fatto danni come una calamità . Le giovani larve, che si sviluppano dopo il deposito dell’uovo, si cibano della polpa dei frutti proprio nella prima fase del loro crescita e pensate che ogni femmina può deporre 200-300 uova, e di regola ne lascia una per ogni oliva.
Passeggiando per i campi si assiste a uno spettacolo insolito: intorno al tronco e alla chioma giacciono per terra le olive colpite dalla infestazione della larva e sono tante di più di quelle che resistono attaccate ai rami.
Solo pochi sapienti hanno notato per tempo la presenza dell’insetto e si sono premuniti con i provvedimenti del caso: trappole biologiche, passaggi di ramato e lotta chimica che hanno permesso di limitare i danni e preservare una certa quantità di produzione, anche se la qualità della spremitura non è ai livelli tradizionali degli anni passati.
Girovagando fra i raccoglitori ho potuto raccogliere delle informazioni interessanti e curiose!
Come mai la mosca, che non aveva mai colpito a memoria d’uomo questo spicchio di territorio si è presentata silenziosa e insinuosa depositando uova a man bassa? Credo che vadano i fatte prima alcune considerazioni!
L’insetto colpisce con temperature intorno ai 30 gradi, un caldo superiore riduce la fecondità delle femmine anche dell’80% - una decimazione naturale. Le olive devono presentarsi pronte al deposito dell’uovo e la femmina testa il grado di “accoglienza” del frutto saggiandone la dimensione, il colore, la morbidezza e l’odore compiendo anche delle punture sterili - una specie di carotaggio. Se tutto va bene eccola lasciare l’uovo che si svilupperà in vari stadi di larva con i danni conseguenti.
Secondo Mauro, attivo testimone di innumerevoli raccolte e spremute di olive, il deposito delle uova è stato possibile poiché la stagione ha subito un’anticipazione per quanto riguarda le temperature e la mosca ha trovato pronti i frutti, fatto che prima non accadeva; probabilmente il cambiamento climatico, che pressapoco tutti percepiamo con il detto “le stagioni non sono più quelle di una volta”, interessa anche il piccolo ambiente in cui viviamo e influenza tutti i coltivi, compresi gli orti.
Lo stesso Dante che pur essendo pugliese adotta il metodo di raccolta di queste parti – cogliere i frutti sull’albero anziché aspettare la loro naturale caduta - conferma che la mosca non si era mai aggrappata alle sue olive, “un’oliveta sempre esposta ai refoli bizzosi del vento che impediva agli insetti di posarsi”, e quest’anno era impreparato a questa eventualità. Il suo raccolto ne ha risentito fortemente in termini di quantità - produzione ridotta del 70% - e qualità poiché le olive bacate rendono l’olio più acido e un po’ meno conservabile.
Beppuccio invece è uno di quelli che se né accorto abbastanza in tempo e ha inondato i suoi splendidi olivi di ramato che ha esercitato un'azione repellente e le femmine hanno rivolto la loro attenzione verso le olive di altri. Pur subendo un minore raccolto gli è andata comunque bene, d’altronde di mestiere ha sempre fatto il contadino e il suo sapere, sedimento di esperienza sul campo e trasmissione orale, lo pone al di sopra di chi fa agricoltura del tempo libero e anche di qualche azienda locale con tanto di agronomo.
I meno fortunati hanno deciso addirittura di soprassedere al raccolto e le olive sono rimaste tristemente attaccate ai rami fino alla loro caduta.
L’andare perditempo fra i coltivi al momento topico della raccolta mi ha permesso di osservare l’ingresso di una nuova tecnologia finalizzata alla raccolta – ben rapida – anche per chi ha un campicello: “oliwatt” è l’arnese elettrico che, collegato a una batteria, con il suo pettine di gomma a rastrello entra dentro le fronde dei rami e fa cadere le olive - anche quelle più minute - sul telo posto intorno al tronco - qualcuno usa dei paracaduti di un colore verde militare sbiadito, forse dono di qualche ex parà o comprati al famoso mercato americano di Livorno - permettendo una velocità sconosciuta fino a pochi anni fa. Si perde però quell’aspetto consolidato della raccolta dove le voci di parenti, di amici e bambini si rincorrono fra gli alberi, da scala in scala, magari sotto lo sferzare del vento che screpola le mani e le labbra, narrandosi la politica, l’ultimo libro letto o l’ultimo film visto al cinema Accademia (sic!), quella o l’altra trasmissione televisiva o – meglio - la vita di tutti i giorni!
A conclusione di questo breve reportage fra campi e persone che non vedevano l’ora di condire con l’olio nuovo fagioli, cavolo nero, ceci e pane abbrustolito per gustarsi la forte fragranza dell’olio nuovo non c’è che da sperare che il prossimo anno sia migliore e memori dell’esperienza di questa stagione il controllo sull’insetto si faccia più serrato, quindi occhio alla mosca!

18 ottobre 2007

Una bella serata di musica alla Chiesa di San Martino a Quona

Sabato sera la chiesa era piena: non erano venuti per qualche funzione religiosa - si era svolta nel tardo pomeriggio - ma per un bel concerto nell’ambito del progetto “Stazioni sonore”. Nicola Vernuccio, attivo contrabbassista jazz e Claudia Tellini, voce suadente dalle ricche sfumature soul e blues, sono stati gli intrattenitori per ben più di un’ora.
Molti gli appassionati di jazz e della sua contaminazione con la musica contemporanea – operetta, musica sacra, improvvisazione e canto riproposti in chiave jazz - che erano saliti da Pontassieve - o venuti da Catelano nei pressi di Doccia o addirittura da Firenze - attraversando
il buio della campagna circostante, con poche indicazioni e il rischio di perdersi, per ascoltare e assistere a questa bella performance. Presenti anche alcuni illustri cittadini del “Popolo di Quona” fra cui spiccavano Mauro e Renza - immancabili fin dal 1996 - data della prima edizione di Pievi nella campagna - a questi appuntamenti che nel tardo pomeriggio erano stati occupati in una importante riunione del comitato per l’acqua a San Martino.
Discorrendo del più e del meno con Lorenzo - conosciuto animatore culturale dell’area fiorentina, e non solo, nonché direttore musicale di Fabbrica Europa, curatore di svariati programmi che hanno al centro la musica e il teatro e scrittore estemporaneo - mi diceva che riuscire a mettere insieme e a fare dialogare musicalmente un soprano con un contrabbasso è cosa assai difficile perché è quanto di più opposto e di innaturale si possa immaginare dal punto di vista sonoro, melodico e strumentale.
In questo caso l’esperimento è perfettamente riuscito, tanto è vero che il numeroso pubblico ha chiesto ripetutamente il bis, soddisfatto più di una volta dai due bravi musicisti: improvvisazione e canto, praticati con la semplicità del vero e la leggerezza degli artisti veri.
Un lavoro aperto, in corso, anzi un viaggio vero e proprio alla ricerca di “stazioni da interpretare” più che da visitare, da scoprire con la curiosità e la poesia di una coppia che è sembrata collaudata ed affiatata: ogni tappa e ogni itinerario un’emozione che si ripete e si reinventa.
Applausi scroscianti per ogni brano e piena soddisfazione nell’ascoltare questo itinerario composto da brani musicali dalla tradizione europea, americana, mediterranea, ispanico-araba e africana che si fondono con la contaminazione jazzistica o viceversa: alla fine una vera e propria ovazione con numerosi bis in cui i due musicisti si sono volentieri cullati.
Ma la serata non si è conclusa alla fine del concerto - con le immancabili considerazioni,
discussioni e scambio di opinioni del dopo spettacolo – ma è proseguita per un bel po’ grazie alla disponibilità della “custode” della Chiesa che ci ha accompagnato nella visita della canonica, dello studio del parroco decorato da Leto Chini e della cappella della Compagnia restaurata nel 1816 - come si legge sotto lo scudo “insieme al popolo” (una cum populum) - dal parroco Giuseppe Farulli, lo stesso che redigerà l’ultimo censimento del Granducato di Toscana nel 1841 al quale sarà dedicato un “post” specifico.
In conclusione buona musica e un percorso che ha permesso ai tanti che sono rimasti di scoprire i gioielli di una graziosa Chiesa di campagna e un po’ di storia locale.

08 ottobre 2007

La capra pestifera

Da diverso tempo nei paraggi di Trentanove si aggira una simpatica capra domestica, di un bel colore fulvo. Il suo luogo preferito di stazionamento é il Chiesino di San Giusto e come vi sia arrivata è un mistero. Fatto sta che da diversi mesi ascoltiamo il suo belare ed ora che è rimasta sola ha imparato a farci visita, soprattutto il sabato e la domenica, per cui si precipita per giocare, mangiare e accennare a qualche testata che le sue potenti corna possono rendere dannosa. L’indole è buona - domestica come si suol dire - ma quando arriva siamo ormai pronti a chiudere porte e cancelli poiché divora di tutto e sale in ogni posto! Verdure e fiori di tutti i tipi, ma gli orti sono la sua vera passione poiché germogli belli e pronti da gustare non si trovano tutti i giorni! Non si limita però a cibarsi di ciò che trova, anzi il suo esuberante repertorio la fa sconfinare dai salti sui tavoli di casa - chiedere ad Alessandra e Giuditta - sul cofano dell’auto o sull’ape rossa di Beppe; insomma è così dirompente e temeraria - un piccolo terremoto - che è difficile tenerla a bada se non con un bastone a mo’ di minaccia e, comunque, solitamente arretra di poco, giusto il tempo per focalizzare il pericolo che non c’è, per poi proseguire nella sua avanzata.
Il rapporto con gli altri animali è di duplice diffidenza anche se lei non ha paura di niente, apparentemente: i cani li guarda in maniera spavalda, con i suoi occhi marroni tendenti al rossastro, come a dirgli: prova a farmi qualche sgarbo, ti farò assaggiare le mia corna! Con i gatti c’è contatto solo visivo poiché i piccoli felini si mantengono, furbescamente, a distanza di sicurezza non offrendole mai l’occasione di trasformare lo sguardo da curioso a sfida.
Alcuni di noi hanno ben pensato di barricare gli orti - Giovanni e Renzo - per salvare il cavolo nero, le insalate, la bietolina, i pomodori e quant’altro: altri hanno chiuso il cancello per non farsi divorare le fragole o qualsiasi altra pianta o per non vedersela in casa pronta a salire sul divano!

La capra in realtà sembra soffrire di solitudine e volendo stare in compagnia si adopera in ogni modo per rendersi simpatica al mondo, non consapevole dei danni e delle paure che può procurare con le sue temibili corna, le corse trafelate e gli scarti che compie come a dire: ti ho nel mirino ma sono capace di evitarti quando voglio - se voglio! Il problema è che non sappiamo quando punta dritta su di te e ti evita davvero, pertanto non gli giriamo mai le spalle. Per neutralizzare la sua irrequietezza o si usa un bastone o si è costretti a bloccarla per le corna, con relativa spinta e scuotimento del capo.
In queste ultime giornate non si vede più - il Chiesino è tornato popolato, si percepisce ogni tanto il suo belare lontano come dire: ci sono, vengo quando mi va e quando meno ve lo aspettate!

13 settembre 2007

Acqua: un impegno di tre lustri, e passa!

L’antica zona dei popoli di Quona (San Giusto e San Martino) è un territorio rurale racchiuso a nord dal tabernacolo di Montefiesole, a est dalla dorsale di poggio Bardellone, a ovest dal quercione, un a roverella secolare e a sud dall'Arno.
Comprende numerose case coloniche adibite a residenza - circa 400 persone - delle fattorie con produzioni di qualità nonché attività agrituristica, una chiesa dove dopo il restauro sono riprese le funzioni religiose, tre cimiteri, di cui uno di campagna ormai abbandonato, agricoltura del tempo libero.
L’area è da sempre carente d’acqua poiché la presenza dell’argilla ostacola il formarsi di vene sotterranee di una certa entità; nell’opera di ricerca della vena si sono profusi diversi geologi - con risultati molto scarsi. Qualcuno ha pensato anche di rivolgersi al rabdomante - una pratica antica che si perde nella notte dei tempi - confidando nelle sue doti naturali, ma il risultato non è cambiato. La scienza e la rabdomanzia, sono arrivate alla stessa conclusione: l’acqua non c’è, e quando la si trova è così poca da essere inutile!
Questa piccola e sparsa comunità non ha tratto benefici diretti dagli oneri di urbanizzazione versati al Comune in occasione della trasformazione delle case da rurali a urbane che prima del restauro versavano in condizioni di abbandono: basta vedere lo stato della strada comunale che è piena di buche.
Oggi per l’approvvigionamento idrico vengono utilizzati pozzi e piccole sorgenti con scarsa portata che, oltre a non garantire la potabilità, non sono sufficienti al fabbisogno: nel periodo estate-autunno molte famiglie devono ricorrere a delle aziende private per riempire le cisterne o utilizzare altri mezzi di fortuna, come le taniche, per soddisfare il bisogno che la legge indica come primario, vale a dire l’uso umano (insomma per cucinare, lavarsi, tirare lo sciacquone ecc): è evidente che con il recupero di quasi tutti i fabbricati a fini abitativi il bisogno di acqua è aumentata, mentre il livello delle sorgenti e dei pozzi nella migliore delle ipotesi si è preservato costante, nella peggiore è diminuito e nonostante l’adozione di tecniche di risparmio.
Da più di quindici anni ci si è impegnati a far sì che la rete idrica fosse estesa anche alle nostre case d'altronde termina a poche centinaia di metri ma dopo tanti amministratori e tecnici che si sono succeduti nella vicenda, allo stato attuale non abbiamo un interlocutore né presso l’amministrazione comunale né presso Publiacqua, la società che gestisce il ciclo integrato delle acque.
Francamente ci sentiamo un po’ presi in giro dopo le tante promesse non mantenute, progetti redatti e presentati ma mai portati in esecuzione, finanziamenti che un giorno sembrano esserci per scomparire quello successivo: si assiste, inoltre, a una certa "volatilità" degli interlocutori istituzionali la cui partecipando alle riunioni non impedisce alla pratica di essere posta nello scaffale del dimenticatoio per rispolverarla quando si sollecitano di nuovo. Non parliamo poi di Publiacqua che risulta essere così lontana e presa da questioni ben più importanti - critica situazione finanziaria, ingresso di soci privati, aumento delle bollette e degli utili - che il nostro bisogno primario sembra per loro di infimo ordine.
Per meglio illustrare l’intera questione si ricordano le principali fasi della richiesta dell’estensione dell’acquedotto, che è passato dalla gestione del comune a quella di Publiacqua, di proprietà dei comuni e controllata dagli stessi attraverso l’ATO: cioè il controllore (i comuni) controlla il proprietario (i comuni) - insomma è un po'da ridere!

Ma ecco la cronistoria!
Nel 1991 un primo gruppo di persone richiede al Comune di Pontassieve di studiare la possibilità di ampliamento dell’acquedotto, sottolineando disponibilità al coofinanziamento dell’opera. La risposta non fu malvagia poiché l’ufficio acquedotto mise a punto un progetto di massima la cui spesa si aggirava intorno ai 350 milioni di lire.
Nel 1992 viene presentato al Sindaco un documento per chiedere un impegno formale della municipalità per la presentazione della domanda di finanziamento dell’opera attraverso fondi europei: la domanda però non viene presentata e nel frattempo si erano aggiunti ai primi richiedenti anche le famiglie di Trentanove (Quona).
Nel 1995 viene richiesto allo stesso Sindaco di prendere in considerazione il bando di un finanziamento europeo finalizzato alla realizzazione di acquedotti rurali, impegnandosi di nuovo al cofinanziamento. La domanda di non viene presentata: e due!

La speranza
Nel 1999-2000 si accendono nuovamente le speranze dei cittadini dei “popoli di Quona” poiché il nuovo Piano di sviluppo rurale prevede anche lo sviluppo degli acquedotti rurali con relativi finanziamenti in quota parte. I cittadini non stanno a guardare e si informano direttamente presso la Regione sulle possibilità di presentazione della domanda di finanziamento per l’estensione dell’acquedotto da Mezzana a San Martino (la distanza va da 1 a 2 km): scrivono anche una lettera a diversi soggetti istituzionali per informare della “situazione acqua” nella zona di S.Martino chiedendo al Comune di farsi carico della presentazione della domanda di finanziamento che questa volta viene inviata in Provincia, confermando nuovamente l'impegno al cofinanziamento dell’opera intorno a cui cresce l’interesse di tutta la comunità.

Cresce l'aspettativa
Finalmente nel 2001 il Comune risponde positivamente e a tal proposito viene presentato al Sindaco, lo stesso del 1992, un promemoria per invitarlo a esaminare la richiesta di un incontro con i dirigenti di Publiacqua in occasione del passaggio di competenze dal Comune a questa Spa nella gestione del ciclo delle acque.
Nel 2003 – evviva! - il Comune chiede a Publiacqua l’estensione della rete idrica, impegnandosi anche a partecipare al finanziamento dell’opera per soddisfare esigenze primarie di questi residenti ed aiutarli a risolvere un problema molto importante per la qualità della vita e utile anche alla valorizzazione dell’ambiente rurale.
Le cose sembrano andare per il meglio: a novembre Publiacqua redige il progetto definitivo comprensivo del capitolato d’appalto e l’opera è inserita nel Piano triennale con un impegno di 80.000 € da parte del Comune.
Sembra essere addirittura prossima la realizzazione, tanto è vero che ne parla anche La Nazione.
Nel 2004 la Provincia (tramite l'Artea) delibera che il progetto è ammissibile ma non viene finanziato per la limitatezza delle risorse disponibili: nuovo incontro con il Sindaco, lettera del Comune a Publiacqua che inserisce l’opera nel Piano Operativo Triennale 2005-2007 dichiarando di voler indire la gara d'appalto dei lavori in modo da iniziare i lavori nei primi mesi del 2005. Ci siamo! Neanche per idea, purtroppo!

La melina
Ci sono le elezioni e viene eletto un nuovo Sindaco di centro-sinistra: quindi cambiano gli amministratori ma non il colore della maggioranza e della Giunta per cui l’aspettativa è la conferma degli impegni assunti precedentemente.
Inizia una fase che dura fino ad oggi che potremmo definire “melina”, mutuandola dal gergo calcistico, sinonimo di “perdere tempo e rimpallarsi “ la responsabilità. Guardate un po’!
A ottobre del Comune riduce il suo impegno finanziario da 80000 a 30000 euro, l’opera permane nel POT di Publiacqua con un finanziamento di 100.000 al netto del contributo del comune, mentre il costo sale in maniera esponenziale per toccare quota di 445.000 euro!
Nel febbraio 2005 si svolge una riunione in comune con il Vicesindaco, l’assessore all’ambiente, due ingegneri di Publiacqua a cui vengono poste varie domande. Le risposte sembrano soddisfacenti: anche se qualcuno ha la bella pensata - veramente geniale - di accollare ai richiedenti il costo dell’intero rifacimento della strada comunale sotto la quale dovrebbe passare la rete idrica. L’incontro si conclude comunque con alcuni impegni da parte degli amministratori e di Publiacqua. Impegni che poi vengono, purtroppo, completamente disattesi.
Decidiamo di andare a Publiacqua per sollecitare una risposta in merito alla difficoltà di reperire fondi per estendere l’acquedotto pubblico ma incocciamo nella stasi della società che è in attesa di conoscere il nuovo socio che dovrebbe portare nuovi capitali.
In aprile al nuovo assessore all’ambiente viene consegnato il progetto e ci informa che Fiorentinagas potrebbe partecipare all’intervento metanizzando la zona. Si accendono nuove speranze poiché in un colpo solo avremmo acqua e gas; con i costi attuali del gpl: sarebbe veramente una gran cosa!
A luglio ci si vede di nuovo con il comune che sembra confermare gli impegni e a redigere la lista degli interessati all’acquedotto: in realtà la lista la prepariamo noi e la consegniamo in ottobre. Il Comune che si impegna a fare i ripristini stradali.
Arriviamo al dicembre 2006 e visto il silenzio tombale viene inviata l’ennesima lettera in cui si ricorda alla nostra amministrazione e a Publiacqua gli impegni presi e si sottolinea la vicinanza del termine di scadenza del POT, con il rischio di perdere la progettazione dell’acquedotto se questo non verrà riconfermato nel piano triennale.
Richiediamo una risposta a breve in modo da poter prendere le decisioni conseguenti dato l’aggravarsi del problema idrico.
Negli stessi giorni chiediamo un appuntamento al Sindaco per illustrare la situazione dato il silenzio sia di Publiacqua che dell’Amministrazione Comunale e soprattutto per capire chi si interessa attualmente di seguire l’iter della nostra domanda.
L’appuntamento fissato per la fine di gennaio 2007 viene disdetto il giorno prima per l’assenza del primo cittadino: la segretaria ci fa presente tra l’altro che la materia non riguarda il Sindaco ma l’assessore preposto: il problema è che non si riesce a capire chi è “il preposto”!
Perse le tracce di Comune e Publiacqua, non sappiamo chi si interessa del problema, decidiamo pertanto di rivolgerci al Difensore Civico per vedere “l’effetto che fa”!
Alla prossima puntata